«Io che dono plasma in memoria di mio papà»
Parla Silvia Monosi, 46enne di Latina, che ha iniziato il suo percorso seguendo l’esempio del padre infermiere e volontario avisino: «Quando mi chiedeva di provare rifiutavo sempre per paura dell’ago. Poi mi sono decisa e ora anche mio figlio mi segue»
Di generazione in generazione. Le tradizioni e i valori si tramandano così, ereditando abitudini e sensibilità. Raccontando gesti e modi di fare che hanno reso importante chi c’è stato prima di noi.
La protagonista di questa storia è Silvia Monosi. Ha 46 anni e lavora a Latina, città dove è nata e vive da sempre. È sposata e ha un figlio di 22 anni, Riccardo, con cui condivide un percorso di solidarietà e impegno civile: la donazione. «Ho iniziato tardi per paura degli aghi – racconta – ma ora per me è una piacevole abitudine». Ha un gruppo sanguigno raro, l’AB negativo, motivo per cui quasi da subito si sottopone a procedure in aferesi così da donare il plasma. Il fatto di passarsi il testimone, di tramandarsi un qualcosa di padre in figlia, la riguarda in prima persona. Il papà di Silvia, infatti, era un infermiere: «Ha lavorato dal 1980 al 2003 nel reparto di Ematologia dell’ospedale civile di Latina – ricorda – quindi la sua esperienza con il sistema trasfusionale nella nostra famiglia c’è sempre stata. Una volta andato in pensione ha continuato a esercitare la professione privatamente e, come volontario, nella sede dell’Avis Comunale di Pontinia». Giuseppe, ma per tutti era Pino, così si chiamava. Ci ha provato spesso a convincere la figlia a diventare donatrice, ma lei per il timore delle siringhe aveva sempre soprasseduto. Poi, d’improvviso, tutto cambia.
È il 2008 e a Pino viene diagnosticato un tumore. Ha bisogno di continue trasfusioni, un trattamento che, come ricorda la stessa Silvia, «gli permette di rimanere qui con me ancora un po’». Purtroppo, però, due anni di lotta e di terapie non sono sufficienti a Pino per vincere la sua battaglia. Il tempo passa e nella mente di Silvia ritorna il ricordo di quei donatori che, con il loro gesto solidale, avevano permesso al papà di curarsi nei momenti più complicati della malattia. Succede tutto un po’ per caso: «Passo davanti a un’autoemoteca dell’Avis – conclude – e decido di fermarmi a chiedere informazioni per iniziare a donare. I volontari mi dicono che posso recarmi direttamente in sede e fare tutto lì e immediatamente penso a tutte le volte in cui mio padre mi chiedeva “ma perché non provi anche tu?”. Gli avevo risposto sempre di no, stavolta invece lo faccio davvero. E così ho iniziato».
E con lei c’è anche il figlio Riccardo che è donatore da quando è diventato maggiorenne. Perché la solidarietà è così e si tramanda di generazione in generazione.