Come viene utilizzato in Italia il sangue dei donatori

Dalla cura delle anemie in pronto soccorso alle trasfusioni in ambito chirurgico e oncoematologico, lo studio che scatta la fotografia del nostro Paese

 

A cosa serve il sangue? Che fine fanno i globuli rossi e gli altri emocomponenti frutto del gesto etico, volontario e non remunerato di migliaia di donatori? Sono alcune delle domande che, spesso legittimamente, in molti si pongono per conoscere non tanto il “percorso”, quanto per capire a cosa servono le sacche raccolte.

L’Italia è da tempo autosufficiente per quel che riguarda i globuli rossi: ogni giorno circa 1800 pazienti vengono trasfusi e le strutture sanitarie hanno a disposizione scorte per le sale operatorie e le terapie oncoematologiche. Tuttavia, proprio in ambito medico-scientifico, è nata l’esigenza, anche sulla spinta di ricerche effettuate in altre nazioni, di svolgere uno studio per capire quali siano le principali aree di utilizzo del sangue, la tipologia di pazienti che lo ricevono e l’emocomponente principalmente trasfuso.

Del risultato di questa ricerca, pubblicato sulla rivista Blood Transfusion, ne abbiamo parlato con la dottoressa Giuseppina Facco, ematologa da poco in pensione dopo anni di lavoro nel servizio trasfusionale della Città della Salute e della Scienza di Torino, di collaborazione con il Centro nazionale sangue come referente dell’emovigilanza e di responsabile scientifico nel consiglio direttivo della SIMTI (la Società italiana di medicina trasfusionale e immunoematologia).

 

Giuseppina FaccoLa dottoressa Giuseppina Facco

Dottoressa, ripercorriamo le tappe di questo studio.

«Il lavoro è iniziato quando ero ancora parte della SIMTI insieme all’allora presidente Pierluigi Berti. La rilevazione è durata per circa un anno chiudendosi poco prima che scoppiasse la pandemia, anche se la pubblicazione è avvenuta solo adesso. Il bacino da cui attingere per raccogliere i dati era già chiaro, tuttavia non è stato semplice riunire i numeri in maniera organica».

 

Da cosa è nata l’esigenza di effettuare un’indagine di questo tipo?

«Il nostro obiettivo, sulla spinta anche di quanto avvenuto in altri Paesi, era quello di capire quali fossero in Italia le principali aree di utilizzo del sangue. Uno studio di questo tipo non era mai stato condotto e la necessità di conoscere l’uso clinico degli emocomponenti era fondamentale. In particolare volevamo stabilire che tipo viene trasfuso di più, in che ambito e quali sono le caratteristiche principali dei pazienti che lo ricevono. Nonostante il tempo di rilevazione sia stato di circa un anno, l’analisi di questi dati era di 24 ore: l’esigenza era quella di scattare una fotografia immediata di cosa ogni giorno venisse trasfuso, escludendo le date festive e pre festive».

 

Come è stato condotto e quante realtà ha coinvolto?

«Forti dell’esperienza che avevamo in survey effettuate ad anni alterni, abbiamo predisposto una sorta di questionario che è stato inviato a tutti i servizi trasfusionali a firma dell’allora presidente della SIMTI, Pierluigi Berti. Nelle risposte dovevano essere indicati i pazienti che si erano sottoposti a trasfusione, la loro data di nascita, il sesso e l’emocomponente che avevano ricevuto. Abbiamo chiesto ai Servizi Trasfusionali italiani di segnalarci tutti coloro che ricevevano almeno una trasfusione di globuli rossi (GR), plasma fresco congelato (PFC) o piastrine (Plt) in un giorno specifico (lo stesso per tutti è stato il 10 aprile 2019, ndr). Hanno risposto 153 strutture su 237 invitate. Le 153 rappresentano circa l’80% dell’attività trasfusionale nazionale. Il 10 aprile 2019 sono stati trasfusi 4356 pazienti, di cui 2096 donne (48,1%) e 2254 uomini (51,7%). Del totale, 1437 (32,9%) avevano un’età superiore a 80 anni e quasi due terzi erano over 65 (2826 64,9%)».

 

Che dato emerge?

«Anche se ce lo aspettavamo, i globuli rossi si sono confermati come l’emocomponente più utilizzato: 3850 pazienti hanno ricevuto 6309 unità (66,7% dei quali infusi per indicazioni mediche e 32,4% per indicazioni chirurgiche). Tra le indicazioni mediche il numero più elevato è stato trasfuso a persone con anemia acquisita non oncologica (in particolare nei dipartimenti di emergenza/urgenza) e anemia oncoematologica. L’indicazione chirurgica più frequente è risultata l’anemia perioperatoria in chirurgia ortopedica e l’anemia in traumatologia. Inoltre, 560 unità di piastrine sono state trasfuse a 520 pazienti e 654 di plasma fresco congelato a 194. Il dato interessante è emerso dall’area in cui vengono impiegati maggiormente che non è quella chirurgica, bensì le indicazioni mediche per terapie oncoematologiche. Dal nostro studio è poi emerso che una massiccia quota viene trasfusa già in pronto soccorso per cause che, nell’immediato, non sono ben definite. Molte ricerche effettuate in passato suggeriscono la necessità di diagnosticare l’anemia e la sua origine fin dall’arrivo in ospedale, così da capire meglio se un paziente necessiti esclusivamente di ferro senza ricorrere a un’intera sacca. I concentrati piastrinici aumentano per le terapie oncoematologiche, mentre l’utilizzo del plasma fresco congelato è minimo, un fatto che ci fa ben sperare per il raggiungimento dell’autosufficienza nazionale di farmaci plasmaderivati».

 

Alla luce dei risultati, che strategie suggerisce di adottare?

«Vorremmo che questo tipo di rilevazione venisse ripetuto periodicamente così da avere sempre un quadro aggiornato dell’andamento. Siamo rimasti molto colpiti dal dato relativo alle anemie trasfuse prima di capirne l’origine. Pensiamo però che lo studio possa contribuire a delineare i percorsi futuri per il Patient Blood Management che dovrebbero essere focalizzati in particolare sull’anemia di tipo medico proprio in ambito di pronto soccorso. Valutare il paziente, definire un protocollo che valuti la sua condizione in modo da capire se e come trasfonderlo».

 

I donatori come devono interpretare questo quadro?

«Come uno studio che punta a tutelare loro e il gesto straordinario che compiono ogni giorno. Questo effettuato dalla SIMTI è il primo a livello nazionale e fornisce una “fotografia” epidemiologica sull’utilizzo del sangue in Italia. I dati emersi possono essere di grande aiuto nell’individuare correttamente il reale fabbisogno di questa preziosa risorsa, contribuendo perciò a migliorare la sua gestione che, da sempre, mira sia alla sicurezza del donatore che del paziente. Programmare le donazioni in funzione delle necessità è il modo migliore per non sprecare una goccia di ciò che viene donato e in tal senso per noi è fondamentale collaborare con le associazioni. Sapere dove va a finire il sangue deve far sentire i donatori ancor più tutelati, protetti e convinti della scelta etica che hanno intrapreso e che assicura terapie salvavita senza esporre nessuno a rischi o sforzi inutili».