Malattia di Alzheimer, un esame del sangue punta a fornire la diagnosi precoce

Oggi si celebra la Giornata mondiale delle donne nella scienza. E tre sono le donne che partecipano a questa ricerca, condotta dall’università dell’Insubria di Varese in collaborazione con l’ASST Sette Laghi

 

Si chiama D-serina. È un amminoacido che permette, in base al livello riportato, di stabilire la regolare, o meno, attività di neurotrasmissione. Uno studio condotto dall’università dell’Insubria di Varese, in collaborazione con l’ASST Sette Laghi, ha confermato come la quantità di questa molecola in alcune zone del cervello sia diversa tra persone malate di Alzheimer e persone sane, tanto da eleggerla come marker per effettuare, tramite un esame del sangue, una diagnosi precoce di questa patologia neurodegenerativa.

Ammontano a circa il 6% degli over 60 e al 20% degli over 80, il totale di individui che, nel nostro Paese, vengono colpiti da quella che rappresenta la più comune causa di demenza. Una malattia per la quale non esiste ancora una cura definitiva, ma che grazie a studi come quello in questione, pubblicato anche sulla rivista Nature, attraverso esami non invasivi come un semplice prelievo ematico, possono fornire nuove strategie per contenerne gli effetti e garantire ai pazienti la qualità della vita migliore possibile.

Per capire come si è sviluppata la ricerca, approfondendo criteri di applicazione, durata e obiettivi futuri, ne abbiamo parlato con la professoressa Silvia Sacchi e il professor Luciano Piubelli, del Dipartimento di Biotecnologie e scienze della vita dell’università dell’Insubria. Oltre alla professoressa Sacchi ci sono altre due donne nei team che stanno conducendo questo studio: Valentina Rabattoni e Lucia Princiotta Cariddi. Un bel modo per celebrare la data di oggi, 11 febbraio: la Giornata mondiale delle donne nella scienza.

 

Per prima cosa ripercorriamo la storia di questo studio.

«Il lavoro, che coinvolge pazienti e familiari, nasce nel 2016 in collaborazione con i nostri colleghi dell’ASST Sette Laghi che ci hanno messo a disposizione i campioni necessari a validare la ricerca. All’origine c’è il nostro interesse per l’analisi di queste particolari molecole che rappresentano segnali indicativi dell’attività di neurotrasmissione».

 

Parliamo dei team di ricerca: da chi sono composti e come si è sviluppato il lavoro?

«Per quanto riguarda il Dipartimento di Biotecnologie e scienze della vita siamo noi due insieme a Valentina Rabattoni e Loredano Pollegioni e, insieme, ci siamo occupati dell’analisi dei vari campioni raccolti dai nostri colleghi neurologi dell’ospedale di Varese che fa capo alla ASST Sette Laghi: Lucia Princiotta Cariddi, Maurizio Versino e Marco Mauri. Noi quattro del Dipartimento facciamo parte del “Protein Factory 2.0”, un’unità di ricerca che si occupa di studi sulle proteine e argomenti a esse collegate (i D-amminoacidi, tra cui la D-serina, sono dei substrati degli enzimi che noi studiamo da anni, ndr). I nostri colleghi medici invece hanno una doppia affiliazione, nel senso che appartengono sia a strutture dell’università dell’Insubria, sia alla ASST, che ha come bacino di utenza la città di Varese e una parte della sua provincia».

 

Alzheimer esame del sangue2Il team dei neurologi dell’Ospedale di Circolo di Varese che hanno partecipato allo studio: Lucia Princiotta Cariddi, Maurizio Versino, Marco Mauri

In cosa consiste questo esame e quante persone sono state coinvolte finora?

«L’analisi si basa sulla componente sierica di persone che si trovano nella fase precoce a cui viene diagnosticata questa patologia. Ci siamo concentrati su una coorte di 42 persone tra i 64 e gli 87 anni d’età, comprese quelle sane. Sarebbe stato impossibile fare una correlazione semplicemente tra soggetti più giovani e meno giovani, quindi dovevamo necessariamente paragonare fasce d’età uguali. Abbiamo utilizzato una metodica chiama HPLC (la cromatografia liquida a elevata prestazione, ndr), una tecnica che permette di dosare quantità infinitesimali degli amminoacidi di nostro interesse presenti nel campione di sangue e di distinguere le molecole marker della malattia. E i risultati ci hanno dato ragione».

 

Potete spiegarci meglio?

«Già dai dati preliminari che abbiamo presentato in occasione di un congresso internazionale specifico sugli amminoacidi, siamo riusciti a dimostrare che i livelli di D-serina nel siero erano alterati in misura direttamente proporzionale alla gravità della malattia. In poche parole, più l’Alzheimer era in fase avanzata, maggiore era il valore di queste molecole nel siero».

 

All’inizio, però, a proposito dell’amminoacido, stavate parlando di “attività di neurotrasmissione”: quindi questo esame può servire anche per altre patologie simili?

«In realtà ci siamo concentrati su un gruppo di persone colpite da questa malattia senza altri tipi di comorbidità o di demenza. In più, nessuno è stato trattato farmacologicamente, perché il nostro obiettivo era quello di analizzare possibili alterazioni delle molecole a causa della patologia e non di eventuali terapie in corso. L’obiettivo è quello di individuare un range di valore degli amminoacidi per capire quale sia la patologia che ci troviamo di fronte».

 

Quindi lo studio non è ancora concluso: quali sono i prossimi step?

«Siamo ancora in una fase sperimentale. Ad oggi non sono molti i marker che ci aiutano a individuare una degenerazione, ecco perché la nostra ricerca va nella direzione di nuovi indicatori diagnostici da ricavare da analisi facili, veloci e meno invasive possibili da effettuare su persone precoci o a rischio di sviluppare questa malattia».

 

Ad esempio?

«Numerosi studi e pubblicazioni hanno portato a considerare chi soffre di disturbi del sonno più a rischio, così come le persone che presentano disagi cognitivi. Il nostro obiettivo è quello di sfruttare i risultati raccolti finora per iniziare una sperimentazione anche con chi non ha manifestato segnali di demenza».

 

Alzheimer esame del sangueIl team del Dipartimento di Biotecnologie e scienze della vita dell’università dell’Insubria di Varese: Loredano Pollegioni, Luciano Piubelli, Silvia Sacchi, Valentina Rabattoni

 

Ma come si fa a individuare queste persone?

«L’Alzheimer può essere di origine genetica o meno. La strategia è quella di partire da chi ha avuto casi in famiglia e ottenere una validazione di quello che è il potenziale di questo marker diagnostico. Se il test mostra una forma precoce di certo non sarà possibile permettere al paziente di guarire, ma capendo in anticipo con cosa si ha a che fare saremo in grado di attuare una serie di azioni per contenere gli effetti della malattia, cercando di rallentarla e di garantire la qualità della vita migliore possibile a chi ne è affetto».

 

Potremmo definirlo uno studio “a km zero”, viste le realtà coinvolte: può essere un modello da esportare o serve ancora del tempo?

«Ce lo auguriamo, tuttavia per il secondo step, quello che coinvolgerà gli individui a rischio, prevediamo un abbattimento delle tempistiche rispetto alla prima fase (che è durata circa quattro anni, ndr). Sarebbe bello poter accettare anche altre persone che, autonomamente, decidono di effettuare un semplice esame del sangue e partecipare allo studio, ma non siamo in condizione di poterlo fare. Prima è necessario aumentare la casistica per stabilire il reale valore delle molecole in base al quale effettuare la diagnosi. La ricerca in questo ambito continua a fare passi in avanti, quindi il messaggio che ci sentiamo di mandare è quello di restare collegati: oltre al nostro, molti studi puntano, attraverso il sangue, a individuare dei marcatori che facilitino il raggiungimento di questo obiettivo così ambizioso. La speranza è quella di avviare un vero e proprio screening per la patologia precoce attraverso la validazione di altri marker, come ad esempio la beta-amiloide, in quelle persone che in famiglia hanno avuto casi di Alzheimer».

 

Professoressa, questa domanda è specifica per lei. Oggi, 11 febbraio, si celebra la Giornata mondiale delle donne nella scienza: cosa significa far parte di un progetto di questo tipo?

«Per me è un qualcosa di molto importante per tanti aspetti, non solo per una questione di genere. Offrire il proprio contributo alla ricerca significa lasciare un segno per gli studi futuri, oltre che lavorare per offrire nuove possibilità a tanti pazienti, prima tra tutte la diagnosi precoce di questo tipo di malattia. Come donna sono felice di partecipare a tutto questo perché l’Alzheimer colpisce molto più noi rispetto agli uomini, quindi per me è un duplice orgoglio».